RESPIRARE IL DOLORE

RESPIRARE IL DOLORE

Omelia per il Venerdì santo 2022

Qualche volta ho provato.

Ho provato a respirare il dolore.

Ho provato a respirare ciò che respira chi soffre, piange, si sente spezzato nel corpo o nel cuore.

Ho provato perché mi accorgevo che non potevo fare altro. E se provavo a fare altro era solo per mettermi il cuore in pace.

Così mi sono detto che non bastava aiutare chi soffre (e già questo era difficile). Dovevo provare anch’io la stessa sofferenza, dovevo vivere quello che la persona sofferente viveva.

E ho provato! Ho provato a respirare il dolore.

Non so dirvi se ci sono riuscito, né se ho fatto davvero bene.

Mi è sembrato, per farvi capire, di trascurare tanti altri che erano nel dolore, che piangevano. Perché dovevo condividere il dolore proprio di questa persona e non di altri? Solo perché mi era più simpatica o più cara? O forse perché mi amava più di altri?

Almeno in un caso ci sono state conseguenze sconvolgenti!

Anche in questi giorni vorrei provare a respirare il dolore di chi è rimasto solo, perché gli è morta una persona cara. Oppure di chi non ce la fa più a tirare a fine mese e si sente fallito. Mi viene voglia di provare il dolore di quegli uomini che si sono visti sbriciolare la casa da missili, o di quelle donne torturate e uccise gratuitamente.

Ma per espiare il dolore devo essere più vicino, devo guardare negli occhi, stare fisicamente accanto, devo sentire il loro respiro.

Allora provo a respirare il dolore di Gesù. Di lui che è messo in croce. Credo che respirare il suo dolore sia la strada giusta. Forse perché ha tanto amato, forse perché è stato innalzato, forse perché è finito lì per amore e lì, in croce, ha amato fino in fondo.

Come san Francesco che, contemplando la croce ha chiesto di provare il suo stesso amore e ha chiesto di provare il suo stesso dolore. Così ha ricevuto le stigmate, così ha respirato il dolore e l’amore di Gesù.

Anch’io, mi sono accorto che, respirando il dolore, si respira anche l’amore.

Non sempre chi soffre ama. Di solito no. Chi soffre, chi è malato, di solito non ama, ma si rinchiude in sé, si arrabbia. Oggi, anche oggi, il mondo è malato e soffre. Si arrabbia, scalpita, si chiude egoisticamente, non ascolta né vede altro che il proprio dolore.

Invece Gesù, soffrendo, ama. Forse perché, prima di finire lui sulla croce, ha respirato tanto dolore e lo ha fatto suo.

Non solo, respirando il dolore di Gesù in croce, mi accorgo che lui respira il mio dolore. Gesù respira di me, coglie ogni mio disagio, ogni mia arrabbiatura, ogni mia più piccola sofferenza. Certo, è poca cosa rispetto a tanta sofferenza che vedo, ma sapere che Gesù respira il mio dolore, mi aiuta a respirare in modo giusto ogni dolore. Penso a Gesù che, come dice il testo del Vangelo secondo Giovanni, non spira, non dà l’ultimo respiro, ma “dona lo Spirito”, cioè dona il suo amore, dona lo Spirito santo.

Respirando il dolore di Gesù, la sua morte di croce, imparo a respirare davvero ogni dolore,

ogni sofferenza che Dio stesso mette sul mio cammino. Mi accorgo che posso anch’io donare il mio amore e il mio dolore, anche la mia vita, perfino la mia morte.

Mi viene in mente una storia che ho letto anni fa (forse ve l’ho già letta) scritta da una volontaria che visitava in ospedale bambini malati di tumore. Non parla di respirare il dolore, ma di berlo. Ascoltate.

don Maurizio

La notte di Dio
Una favola nata in ospedale
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Un giorno, all’inizio del mondo, l’uomo si presentò davanti a Dio per chiedergli di far sparire il dolore dalla faccia della terra. L’uomo aveva un figlio ammalato e non poteva sopportare oltre di vederlo soffrire così.

– Il dolore è quanto di più ingiusto tu abbia mai creato sulla terra – disse con voce dura.

Dio spalancò gli occhi per la sorpresa e rispose pacatamente:

– Figlio mio, io non posso proprio fare niente. Non l’ho creato io, il dolore. Nel mondo, così com’era uscito dalle mie mani, esso non c’era. Ne sono ben sicuro perché, quando ho contemplato tutto quello che avevo creato, ho visto che tutto era buono. Stai attento a non attribuire a me quello che hai fatto tu. Sei tu che hai introdotto il disordine, e di conseguenza il dolore, nel mondo.

L’uomo chinò il capo confuso, farfugliò qualche parola dalla quale si capiva che, in fondo, sì, ammetteva di avere qualche colpa, ma ciononostante rinnovò la sua richiesta, tra le lacrime:

– Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per mio figlio! Lui non ha colpa alcuna, non è giusto che soffra così.

Dio ebbe compassione del pianto dell’uomo e rispose: – Va’ figlio mio, va’ in pace, che qualcosa posso fare. Va’ a dormire tranquillo e torna da me domani.

Dio rimase solo e, nella notte, nella solitudine immensa del creato addormentato, giunse le mani come una coppa e vi raccolse tutto il dolore del mondo. Poi si portò quella coppa alle labbra e la bevve, fino alla feccia. Il dolore gli straziò le carni, gli penetrò fino in fondo al cuore. Nel cuore di Dio si svolse una lotta tremenda, tra il dolore e l’amore. Dio si sentì venire meno e pianse. Il cuore divino divenne come una grande tinozza, colma di lacrime che lavarono il dolore, lo purificarono, gli tolsero ogni bruttura.

La mattina dopo, quando l’uomo tornò da Dio, si spaventò nel vederlo così pallido, così provato, ma non gli chiese nulla, preferiva non sapere quello che era successo.

Dio parlò al dolore, in presenza dell’uomo e gli disse:

– Va’ figlio mio, torna sulla terra, non più segno di maledizione, ma di benedizione perché io ti concedo il potere di purificare il cuore dell’uomo cosicché, chi ti accoglierà nel mio nome, possa diventare una creatura nuova, primizia di una nuova creazione.

Poi parlò all’uomo e gli disse:

– D’ora in poi, non ti domandare più il perché del dolore, ma guardane i frutti.

(da Lauretta, Noi giocheremo in eterno, Ancora, pp 101-102.)